Interviste

 

Music Magazine SENTIRE ASCOLTARE 
16 Luglio 2005  

 

 

 Tra mistero e natura: i viaggi sonori di Peppe Consolmagno

 

 

Testo di: Stefano Solventi

Foto di: Gianfranco Rota

 

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In fondo all'intervista la recensione dei 4 CD di Peppe Consolmagno 

a cura di Stefano Solventi

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Peppe Consolmagno

Consolmagno è percussionista, compositore, ricercatore, artigiano. Il Brasile è perno e punto di fuga delle sue strutture ritmiche/timbriche, nelle quali s’incontrano Africa e Asia, Sudamerica ed Europa, tradizioni e avanguardia. In un abbraccio solo. 

Quando ho ricevuto il pacchetto promozionale della Cajù Records, mi ha preso il solito vecchio timore. Più del solito, a dire il vero. Mi trovavo ad affrontare quattro dischi che la nota stampa faceva supporre piuttosto fuori dalle mie abituali frequentazioni: sperimentali e jazzistici, pervasi d’Africa, di Sudamerica e da un'altra masnada di latitudini. In breve, di tutti i nomi e luoghi e riferimenti citati sapevo ben poco, giusto le intersezioni e i confini con lo sperticato mondo del pop-rock. Di Consolmagno, soprattutto, non sapevo nulla. E mi rodeva, tanto quanto mi affascinava la sua figura di percussionista viaggiatore e artigiano, uno che col legno, il coccio, la corda, interferendo con l’aria e l’acqua, con la terra e i suoi frutti (letteralmente!), impastando geografia e tempo e cuore, costruisce gli strumenti e (quindi) il suono del proprio stare sul mondo.Peppe Consomagno per la Pace, foto di Gianfranco Rota Così mi trovai quei quattro dischi e una lunga nota stampa da affrontare, da scoprire. E quel timore. E quella curiosità. Peppe Consolmagno è un classe ’58, da Rimini. Senza possibilità d’errore può essere definito un percussionista. Ma è anche qualcos’altro: uno che insegue il suono, lo stana, lo inventa, lo danza, lo anima. Uno che sembra cogliere il ritmo dalle vibrazioni nell’aria, perché c’è già, basta sentirlo. Uno che ogni timbro è pulsazione e riverbero, eco di profondità e superficie, attimi corrugati elastici e densi, germogli di vita che avviene. La sua voce e quella degli strumenti che si costruisce da sé (per sé e per altri, tra cui Nana Vasconcelos e Trilok Gurtu...), è una voce sola, la voce di infinite voci, di suoni che indugiano sul limite tra silenzio e vita, tra vita e rumore. La sua presenza è l’arredo che squaderna gli spazi, stempera le coordinate nell’unico crocevia possibile tra ipermodernità occidentale e naivetè terzo/quarto/altromondista, utilizzando senza alcun preconcetto e con la stessa naturalezza espedienti elettronici e nastri (sempre rigorosamente suonati live). Tu chiamala, se vuoi, sperimentazione, però irrimediabilmente condannata alla gioia del puro suonare, ad uno spontaneismo inguaribile, quasi fosse un rito di appartenenza all’ordine dei vivi, di chi non ha rinunciato ad emozionarsi, a stare tra le cose come un miracolo quotidiano. Può sembrare la descrizione di un anacoreta delle sette note, e invece Peppe negli anni si è fatto un bel carnet di frequentazioni “secolari”: fu tra i premiati di Arezzo Wave nel ’95, quindi ha partecipato a numerosi festival internazionali (dal Festival Banlieues Bleues di Parigi al Jaco Pastorius Music Festival di Coriano, dal Musica dei Popoli di Firenze al prestigioso PercPan – Panorama Mondiale della Percussione - di Salvador do Bahia, dal Festival International de Sousse in Tunisia all’Umbria Jazz), trasmissioni radio e televisive (Rai, Canale 5 e la purtroppo defunta Videomusic), senza contare i seminari e l’attività di critica musicale per riviste specializzate (Percussioni, Jazz, World Music) e non (Il Manifesto).

Il Brasile è il suo riferimento sentimentale, un Brasile che è stormo di possibilità inesauribili: la vibrazione del legno, della pelle, della corda d’animale come un gesto di vita, connaturato alla vita, inevitabile alla vita. Per questo, l’attività di Consolmagno non è inquadrabile in un contesto world piuttosto che jazz o addirittura pop: li attraversa tutti come se fossero le etichette vuote che, in effetti sono (…?). Applica con entusiasmo teoria e pratica del proprio suonare alle situazioni più diverse, si tratti del Womad o del Festival Jazz di Montreal, per poi senza indugio collaborare con una delle ultime sirenette della “outro lado” pop, l’ineffabile Cibelle. In ogni caso, la sua firma è la stessa, celata in quel vespaio festoso, in quegli scarabocchi liquidi.

E’ semplice, a ben vedere, il linguaggio di Peppe: una semplicità che può anche sembrare difficile tanto ci siamo abituati a disattenderla (la semplicità). Prendete i quattro dischi di cui sopra (e di cui più sotto), come s’impongano quale sfaccettatura diversa d’una stessa sensibilità, calandosi cioè in situazioni lontane con però in ognuna la medesima voglia (ora una bramosia quasi febbrile, altrove una meditativa sospensione zen) di sintesi, d’incontro, di abbraccio tra forme e culture e individui. Quasi fosse un viaggio che è come dire un ricordo, una testimonianza, una premessa/promessa di futuro. Come i tanti viaggi di Peppe, ognuno l’arte e l’elemento per dare forma ad un nuovo strumento, una nuova voce.

A questo punto, ci è venuta voglia di intervistarlo (purtroppo soltanto via mail). Ci ha risposto con entusiasmo, passione, semplicità. Non ci aspettavamo altro.

SENTIRE ASCOLTARE: Innanzitutto, le coordinate: dove e come nasce, dove e come vive il tuo "fare musica"?

PEPPE CONSOLMAGNO: Il mio modo di fare musica nasce da lontano anche se l’ho concretizzato professionalmente abbastanza tardi. Sono nato a Rimini, ho vissuto per molti anni a Pesaro, ora vivo in campagna tra Tavullia e Gradara ai confini con la Romagna. Sono nato tra due realtà differenti, quella romagnola da parte di madre e quella salernitana da parte di padre, ma senza profonde radici musicali. La mia scuola è stata la vita, le esperienze, i viaggi, la curiosità, gli odori, i sapori, il senso pratico e la manualità. Ho sempre cercato la libertà, la possibilità di poter scegliere, di dover accettare il minor numero di compromessi. Non è facile, richiede uno sforzo notevole e una coerenza fuori dal comune. Se l’unico sostegno sei tu stesso, per ottenere questo bisogna lavorare, fare esperienze, accollarsi responsabilità. Per questo motivo la mia musica non ha confini e cerco di farla vivere ovunque senza limitazioni ne vincoli.

S.A.: Il tuo utilizzo delle percussioni è molto particolare. Sembra che tenti di trovarne la voce interna... Sarà perché le conosci "in embrione", visto che le costruisci?

P.C.: Costruirsi uno strumento aiuta a conoscerlo, a capirlo, a rispettarlo. Passando attraverso le sue fibre riesci a comprendere come si esprime e pertanto di interagire con lui. Costruire il proprio strumento permette di fare da ponte tra l’esigenza creativa e la necessità di soddisfare l’esigenza di musicista. Il mio è un lavoro intimistico basato sull’emozione. Lo strumento musicale è un comunicatore sociale. Per me è importante far parlare lo strumento e questo lo riesco a fare utilizzando la cassa armonica, esaltando il timbro, che determina la qualità del suono, suono inteso come evento sonoro. Non a caso in alcuni miei brani si trova tra l’elenco degli strumenti musicali utilizzati il nome simboli, simboli che rappresentano l’esperienza dell’uomo. Trasporto nello strumento il mio pensiero, il mio carattere…me stesso. Questo è un modo di vedere la musica, non l’unico, ma è un modo.

S.A.: Anche il tuo rapporto col ritmo è peculiare: sembra che ne acciuffi uno già presente nell'aria (nel mood), piuttosto che dettarlo...

P.C.: Non mi è mai piaciuto il ritmo finalizzato a se stesso o come veicolo di arroganza o di esercizio ginnico. Le persone quando suonano trasmettono energia, fanno veicolare pensieri e il loro modo di essere. Si percepisce, è nell’aria, basta prenderlo ed inseguirlo. Tutto questo ti permette di espandere la creatività e di relazionarsi in modo organico con la musica.

S.A.: Il Brasile: non credi che ne abbiamo un'idea terribilmente stereotipata? In altre parole, sostenere che hai nel Brasile il principale referente musicale, non significa il rischio di equivocare la portata del tuo progetto?

P.C.: Del Brasile ancora oggi l’italiano ha purtroppo una idea piuttosto superficiale… Al di fuori che il Brasile non è solo spiaggia e fondoschiena, il non tener conto quello che muove nel profondo quel Paese, è un aspetto riduttivo e irrispettoso. Per quanto mi riguarda, è da tempo che ho allontanato questo abbinamento in effetti poco esatto che mi incanala in una unica direzione che io stesso non gradisco e non mi riconosco. Amo profondamente il Brasile, ho scritto molto su questo Paese, parlo portoghese brasiliano. Il mio modo di suonare la mia musica è legato al balançou, come dire: il mio metronomo, il mio tempo si muove con la pulsazione brasiliana. Per questo motivo utilizzo parole in portoghese brasiliana. Ma non suono musica brasiliana nel senso popolare del termine. Tutto viene dall’Africa e di questo nutro un profondo rispetto. La mia musica passa dalla foresta alla città, dai luoghi sacri deputati al silenzio al caos delle metropoli, dall’infanzia al momento della responsabilità. Non penso a tavolino cosa o come suonare, suono e basta. Poi nel tempo ho trovato persone che parlavano di me con analogie con l’Oriente con la Mongolia con l’Africa ma questo l’ho saputo dopo.

S.A.: Ascoltandoti viene da pensare che la tua sia musica "di ricerca" o "sperimentale", però allo stesso tempo sembra la più naturale, semplice possibile. E' uno dei tuoi obiettivi formali/espressivi?

P.C.: Ricerca e sperimentazione dovrebbero far parte del proprio bagaglio, poi come in tutti i campi è necessario trasmetterla in parole semplici e chiare. Per questo motivo, lascio fuori dalla mia musica tutto quel mondo complicato e laborioso.

S.A.: Tu e il jazz: quanto senti di appartenere all'ambiente o "scena"? Sei un inquilino, un ospite o cosa?

P.C.: Probabilmente più ospite. Questo vale anche quando mi relaziono con altri generi musicali. Gradisco far parte di progetti, chi mi chiama sa che la mia figura è quella e non un’altra. Non mi si chiede fammi questo o quest’altro, perchè sarà sufficiente dialogare, intendersi, raccontarsi e poi lasciare libero il proprio modo di suonare. E’ questo che fa la differenza secondo me, ed è questo che mi ha caratterizzato in questi anni. Una impostazione, la mia, confortata da esperienze di altri illustri colleghi..

S.A.: A proposito, visto che fai anche attività giornalistica, come sta il jazz dal tuo punto di osservazione?

P.C.: Non so bene, dopotutto in questi ultimi anni è così tutto difficile che non riesco essere obbiettivo. Fondamentalmente credo che stia bene. Anche qui in Italia riescono a sopravvivere, anche se sempre a fatica, riviste del settore, siti web molto ben forniti e documentati, tanti jazz club, tanti appassionati, diverse etichette che si occupano di solo jazz. I musicisti jazz italiani sono usciti dal ghetto e riconosciuti in tutto il mondo. La musica suonata…periodo difficile in tutti i campi…ma passerà. I cicli sono cicli, il problema è che durante il tempo concesso alla propria esistenza non se possono vedere molti.

S.A.: Ti capita di provare interesse per qualche disco o genere o musicista di area pop/rock?

P.C.: Con tutta franchezza è un genere che ho sempre frequentato poco. Mi capita a volte di ascoltare qualcosa e solo raramente lo faccio con interesse. Anche in questo genere ci sono cose molto belle e non necessariamente banali. Tutto sta in chi suona, tra chi guarda le cose in maniera rigida o chi le vede in maniera libera e creativa. Come dire: poco esibirsi, molto integrarsi. Il pop/rock è un ambiente differente ma non incompatibile, ci sono tanti esempi di musicisti jazz, world, etc. che collaborano con gruppi pop/rock facendo cose eccellenti. Anche io stesso ho collaborato con questo genere divertendomi… cosa che non capita così spesso. Ripeto la questione la muove la persona.

S.A.: Cibelle, con cui hai suonato, rappresenta a mio avviso la dimostrazione che il pop può raggiungere senza sforzo un compromesso tra qualità e gradevolezza. La ragazza, che se non erro vive a Londra, ti sembra un nome su cui puntare per il futuro?

P.C.: Cibelle è un esempio molto carino. Ho collaborato con lei lo scorso anno. E’stata una esperienza molto interessante e piacevole. Questa tua domanda mi dà la possibilità di poter tornare su discorsi che ho fatto prima raccontandoti un altro aneddoto: venni inviato di suonare con Cibelle dal suo management, nessuna prova, solo un cd inviatomi a casa un po’ di tempo prima. Da programma ci saremmo conosciuti direttamente sul palco del Teatro Verdi di Maniago in provincia di Pordenone. E’pomeriggio e tutti siamo occupati nei preparativi. Un saluto caloroso, due parole per rompere il ghiaccio, una veloce scaletta ed è già ora di suonare. Una serata con orecchie e mente aperta e buona la prima. Una esperienza per tutti indimenticabile. Voglio dire: se non sei disposto a metterti in gioco, non sei abituato ad improvvisare e creare all’istante, questi incontri non potrebbero accadere. E’ necessario crearsi il proprio spazio e imporre senza doverne parlare il proprio modo di suonare, trasmettendo amore e rispetto profondo per la tua musica, nel saper ben collocare in musica i tuoi strumenti senza finire in canali stereotipati e pittoreschi. Per me è importante lasciare ogni volta qualcosa a chi viene ad ascoltare. Puntare su di Cibelle per il futuro…anche, perché no!

S.A.: A proposito di collaborazioni, puoi vantarne molte. A parte l'importanza dei singoli nomi, quale collaborazione ti ha lasciato di più sul piano umano?

P.C.: Non sono così tante devo dire. Certo ognuna ha la sua peculiarità, Anche quelle negative ti aiutano a crescere.

Di certo quella con Nana Vasconcelos è sicuramente la più forte e aneddotica. Ci conosciamo da tanto tempo, ma la nostra amicizia si è rafforzata e concretizzata negli ultimi due-tre anni. Ci siamo guardati per anni con una certa curiosità ma anche con po’ di sospetto come sempre accade quando due persone si incontrano con personalità forti. Per me Nana è stato un ottimo maestro, da lui ho appreso la maniera di dar valore a strumenti come i caxixi, il berimbau, l’udu, i semi etc. Ho iniziato a costruirmeli in pieno rispetto di lui. Forse… non a caso dopo anni di ricerca sul timbro, sui materiali, sulla tecnica costruttiva e sul suono, Nana su sua richiesta oggi utilizza alcuni miei strumenti, quelli che più lo rappresentano. E’ il nostro un rapporto di profondo rispetto, di non invadenza, di non arroganza. Nana mi invitò in Brasile come giornalista al Festival Mondiale della Percussione (PercPan) che si tiene a Salvador Bahia e da lui diretto per svariate edizioni. E’ stato ospite a casa mia. Direi però che tutto è maturato l’anno passato con il nostro primo concerto in trio con Antonello Salis eccellente fisarmonicista e pianista, di cui e’ stato pubblicato il Cd per la Cajù Records. Come dirti: un percorso lungo e articolato che mi ha lasciato un profondo significato.

S.A.: A proposito, i quattro dischi per Cajù escono in un momento molto delicato, con tutto un sistema di produzione e vendita che lamenta i danni provocati da masterizzazioni selvagge e peer-to-peer. Come vedi questo scenario?

P.C: In genere la quantità di dischi che vengono venduti ad esempio di un musicista jazz, equivalgono alla quantità di dischi che una produzione pop destina alla promozione. Capisci bene, che se anche il livello di quell’artista è alto e il suo settore è di interesse culturale importante, fa parte comunque di un ambiente per pochi, mosso sempre e solo da persone che credono in quel progetto, amano quella musica, lontano da conti economici fatto di piccoli guadagni e con molta probabilità anche in perdita. Sopravvivono, ma soprattutto fanno di tutto per far sopravvivere il loro modo vedere il mondo. Lo stesso Peter Kauffmann che crede nei miei progetti, ha fatto uscire in aprile 2005 questi 4 cd a mio nome. Uno sforzo non piccolo, ma necessario, che concretizza quattro miei lavori da tempo nel cassetto e che mi vedono coinvolto in contesti differenti tra loro. Per quanto riguarda la craccatura: è un fenomeno preoccupante, da regolamentare, ma in Italia è così. Se vai con la macchina in una strada a 80 km orari dove il limite è di 50 km orari, il poliziotto addetto al multa velox ti fa una multa di 150,00 euro e ti toglie due punti dalla patente, la stessa velocità che magari lui stesso tutte le mattine percorre con la macchina in servizio, senza cinture, braccio di fuori e sigaretta in bocca, e parla con la collega. Nella stessa catena Musica-Cd, quanti studi di registrazione usano software regolari, quanti musicisti etc. etc. . Sarei dell’idea non di abbassare di tanto il prezzo del cd al pubblico, ma di alzare la quota destinata a chi fa il prodotto e non di quello che ci lavora dopo. Questo permetterebbe di fare lavori professionali, pagare correttamente i professionisti che intervengono nella realizzazione del cd, dal grafico, al fonico, a chi cura il mastering e l’editing etc.. Oggi si dice che si fa un cd con pochi euro…è così vero? Può essere se hai grafica e master pronti a spese zero e se fai i conti solo i conti della stampa e siae. Diciamo le cose come stanno: la musica è considerata ancora oggi un divertimento e non una professione.

S.A.: Tornando ai dischi, il live del 2001 al Womad sotto l'egida Ishk Bashad ha una carica spirituale pazzesca, e al contempo comunica gioia, immediatezza (a meno che questa non sia la gioia del puro ascolto). Hai qualche ricordo particolare legato a quell'avvenimento?

P.C.: Hai colto bene, le emozioni che descrivi sono reali e sicuramente più forti nel vedere il concerto. Il gruppo Ishk Bashad, ancora attivo, nasce dall’idea del pianista Giuseppe Grifeo con cui collaboro da tempo, insieme oltre a me ci sono la suonatrice di Oud e cantante tunisina Mouna Amari e il violinista siciliano Enzo Rao. Fummo invitati nel 2001 a suonare al prestigioso Womad Festival, quello di Peter Gabriel tanto per intenderci, che oltre a festival inglese ha altre collocazioni nel mondo come nel nostro caso a Palermo. Di quel momento ho un ricordo molto buono, tanta energia, tanta voglia di suonare, molta professionalità. I fonici di Gabriel capirono immediatamente cosa dovevano fare, soli venti minuti di sound check, e pronti per suonare. Il concerto fu registrato da Peter Kauffmann. Al nostro ritorno riascoltammo la registrazione e l’idea che fosse possibile farla finire in un Cd sembrava molto fattibile… e così è stato. La collocazione, l’organizzazione, il luogo, il service, il fonico sono gli elementi che contribuiscono alla riuscita di un buon spettacolo.

S.A.: Timbri dal Mondo può essere considerato il tuo autoritratto sonoro, oppure è solo una parentesi che ti sei concesso?

P.C.: Assolutamente un mio autoritratto. Timbri dal mondo è una solo performance che faccio da tanti anni. Il Cd uscito per la Cajù Records testimonia questo mio lavoro. Tieni presente che essendo registrato su due tracce e dal vivo, rispecchia esattamente il mio spettacolo. Tutto quello che si sente è quello che io faccio dal vivo, utilizzando voce, percussioni e live sample. Anche il libricino che accompagna il Cd, ricco di belle foto e di racconti ben mirati, mette in evidenza il mio modo di essere.

S.A.: Come nasce il progetto live con Vasconcelos e Salis?

P.C.: Il mio rapporto di amicizia e professionale con Nana come ti ho accennato è abbastanza lungo nel tempo. In verità non avevamo mai suonato insieme a parte un accenno nel 2001 in un doppio concerto a Firenze. Nana mi chiese se potevo trovare la possibilità di suonare di nuovo in Italia con Antonello Salis con il quale registrò Lester quasi 20 anni fa, un cd memorabile. La sorpresa fu quando mi propose di suonare con loro, idea che si concretizzò con il breve tour del 2004 che toccò come prima data Roma. Si trattò di una prima assoluta del trio. Per evidenziare maggiormente il modo nel quale sono abituato a lavorare ti racconto questo altro aneddoto: Ci siamo incontrati soltanto il giorno prima del concerto: giusto il tempo di scambiarsi i saluti e andare in Rai per partecipare alla trasmissione Stanza della Musica di Rai Radio Tre Suite. Il giorno successivo in solo un’ora e mezzo siamo riusciti, sotto la direzione di Nana, a preparare il programma della serata. Veramente poco il tempo a disposizione, anche questo concerto venne registrato da Kauffmann e oggi è in catalogo Cajù. Un trio particolarmente intrigante, fra composizione e improvvisazione, a cavallo fra tradizione e modernità. Un incontro speciale, superfluo parlare dell’importanza di una persona come Nana Vasconcelos che da oltre 40 anni spicca nel panorama musicale mondiale e di un musicista vulcanico come Antonello Salis, un incontro per entrambi ricco di sorprese. In Aprile di questo anno abbiamo suonato a Parigi.

S.A.: La registrazione del concerto su un due tracce digitale provoca una fragranza, una sincerità non comuni. Sembra di stare seduti per terra con le dinamiche che frullano ad altezza d'uomo. Vuoi parlarne?

P.C.: Sì, è proprio così! La registrazione su due tracce è un modo veloce e pratico, ma come dire: “o la va o la spacca”. Sicuramente con un banco di regia destinato, doppio fonico, etc. etc. si potrebbe lavorare con più dati e con più certezze. Sono sempre stato un tipo pratico e realista, alle parole preferisco far seguire i fatti. Purtroppo le solite ristrettezze economiche, le problematiche organizzative, il poco tempo a disposizione per familiarizzare con chi dovrai lavorare quel giorno, inconvenienti tecnici sempre in agguato, distanze chilometriche etc.etc. portano inevitabilmente a insuccessi. Alle tante belle parole, spesso segue il niente. La vedo così: poche idee molto concrete e realizzabili e allo stesso tempo aperte e proiettate in avanti, La tecnica a due tracce è una fotografia di quel momento, non si possono fare tanti ritocchi, è così come lo sentiva il pubblico e tu dal palco. Questa cosa mi piace, ovvio che da meticoloso come sono, gradisco lavorare in maniera più completa. Ripeto: intanto così si fa e si fa piuttosto bene.

S.A.: Infine, il mio preferito, quel Kalungamachine che è world, jazz, ambient, intensità e divertimento, un inno intimo e panteista... Come è avvenuto l'incontro con Marangolo?

P.C.: Mi fa piacere che ti piaccia molto. Kalungumachine è una ristampa del cd realizzato nel 1994. E’ stato ristampato proprio perché ancora richiesto. Come spesso accade non abbiamo capito bene come mai questo lavoro ha riscosso e riscuote grandi apprezzamenti. Questo cd fu registrato in studio, ma anche qui la logica è sempre la stessa: tre soli pomeriggi senza prove, si suona, si ascolta, si archivia, si lavora finché le energie e le idee ci sono e il cd è uscito. Con Antonio Marangolo già lavoravo da qualche anno. Prima, nel 1990 con il suo Marangolo Quartetto Orizzontale suonammo al International Jazz Festival di Montreal in Canada. Peccato che di questo quartetto ancora esistente, ci sia un master pronto, mai pubblicato. Tra me e Antonio ci lega una buona amicizia e una buona conoscenza dei nostri pregi e difetti. Persona di alto valore musicale e dotato di una grande capacità che gli permette di entrare e uscire nella musica con disinvoltura. Questo ha permesso di realizzare prodotti come Kalungumachine, 37 minuti , un concentrato di libere idee e di suonare anche oggi anche in duo, ogni volta con sorprese.

S.A.: Il suo sax e la tua voce - anzi le tue "voci", se così possiamo chiamare anche quelle dei tuoi "figliocci" percussivi - si abbracciano come se fossero una cosa sola...

P.C.: Questa è la logica adoperata, ma soprattutto il nostro modo di vedere le cose. Non è una cosa creata apposta, premeditata, è quello che siamo.

S.A.: Per concludere: la musica può ancora suggerirci una direzione?

P.C.: La musica è troppo importante e potente. Se la musica esce dall’anima come non può riuscirci?

            Stefano Solventi

 


RECENSIONI ai 4 CD di PEPPE CONSOLMAGNO a cura di  Stefano Solventi

Peppe Consolmagno - Timbri dal mondo (Cajù Records, 2005)Copertina: Nana Vasconcelos, Antonello Salis - Peppe Consolmagno (Cajù Records, 2005)

di ©2005 Stefano Solventi

 

Questo è lo spettacolo in cui Consolmagno mette in scena se stesso, one man band alle prese con un tappeto di arnesi sonori, alcuni costruiti da sé, altri testimoni del suo girovagare in cerca di, del suo spandere vita passando. Insomma, è il suo autoritratto: una impressionistica sarabanda di suoni che tratteggiano l’esistenza affettiva di Peppe, la sua fede nel sottobosco magico che anima le cose, nelle vibrazioni che mormorano una semplicità misteriosa.

Sospesi tra ieraticità e gioco, episodi come Lion Heart e Picolé definiscono frammenti d’una visione tenera, come marce in punta di piedi tra sogni d’infanzia, come istintive pratiche d’incanto. Altrove, lo scenario cambia, ti scivola sotto ai piedi, squaderna modi e mood senza preavviso: ora è una questione di rimbombi cupi, fischi spersi e stridori atonali come minacce addormentate sotto i piedi (Lua), ora uno schizzo spiritoso con una magia nel taschino (Xarà), ora una vera e propria ode al berimbau, questo gracchiare degli dèi, questo filo spinato e volo sfrenato di capoeira (Baurimbé). Il canto, in portoghese brasiliano, si snoda dolciastro, oscuro e sornione, col peso specifico d’una fiaba: come in A minha Carlotta, coi caxixi che strinano un ritmo guizzante, o come in A criativitade è uma dança, ninna nanna che scova i battiti del mondo. Per quanto manchi all’ascolto lo spettacolo visivo di lui che armeggia gli strumenti cavandone la voce, c’è evidente in queste tracce lo sforzo di “visualizzare” la suggestione che le ha provocate, come accade in Segredo da noite (voci e vibrazioni, l’Africa, i Carabi, l’oriente, la tavolozza straniata dagli effetti elettronici, il ritmo primario delle congas e la bizzarria fumigante del flauto andino), e ancor più in Manaus, dove le frequenze si fanno torbide e limacciose, dove in una fauna impenetrabile si aggira un motivetto adesivo alla stregua del Wyatt più bricconcello.

L’arco espressivo è insomma teso come un orizzonte: laggiù la tensione panica, l’attesa drammatica di fronte al manifestarsi del suono (come nella stupenda Encontro das aguas, tra riverberi e persistenze, ronzii e sciabordii) che evoca addirittura certo Brian Eno; quaggiù lo scherzo, il guizzo colorato, come quella Uekke, Uekke che sembra una versione primordiale/minimale dei Tom Tom Club. Nel bel mezzo, nel cuore del punto di fuga, circondato dalle sue propaggini sonore, Peppe Consolmagno armeggia, indugia, escogita il proprio punto di vista, dal quale non smette mai di osservare. Vivendo. (7.6/10)

 

 

Peppe Consolmagno, Nana Vasconcelos, Antonello Salis - Vasconcelos_Salis_Consolmagno (Cajù Records, 2005)Copertina: Peppe Consolmagno, Antonio Marangolo – Kalungumachine (Cajù Records, 2005)

di ©2005 Stefano Solventi

I tre si conoscevano, certo. Il percussionista brasiliano Vasconcelos ed il pianista/fisarmonicista Salis avevano anche lavorato assieme (un album in condominio, Lester del 1985), ma il trio col percussionista Consolmagno rappresentava una novità assoluta. Di più, appena due giorni prima di questo concerto, accaduto nel luglio del 2004 al Fandango Jazz Festival di Roma, non erano mai state fatte prove, non esisteva una scaletta. C’era solo l’idea, la voglia, l’eccitazione di farlo. Detto ciò, capite perché questo disco mi sembra – è - sensazionale? Nella fragranza radente del due tracce digitale, magia e mistero, gioia e cupezza, spirituale e animalesco si spampanano e impastano con impetuosa duttilità, con saggio dinamismo. Giardini incantati nella fibrosità ipnotica del berimbau (O Berimbau e Lion Heart), il pianoforte che romba romanticherie cupe per poi sciorinare melodie scivolose e pazzarielle (Vinho branco) o acide ebbrezze (Vinho tinto). Poi ancora ansiti e voci wyattiane dopo tempeste jazzy (Manaus), il sacro senza quartiere tra schiocchi, strepiti, schianti e fruscii (Vamos pra selva), quindi l’angoscia panica anzi l’incanto evanescente di Lua. Si chiami pure di sperimentazione, questo tracciare una via tangente tra Sudamerica e Asia, concettualizzando un respiro jazz d’Europa e frastagliando ritmiche e timbriche d’Africa. Tuttavia, è un suonare che non si scorda la pura giocosità del proprio nascere popolare, ed ecco allora la pulsante bizzarria afro-doowop-funk di Uekke, Uekke, ecco il mambo jazz dal piano spiritato di Nogales, ecco la marcia bahiana tutta sussulti, scoppi e frizzi di Caribbean dreams, ed ecco il vitalismo febbrile della fisarmonica nella malinconia strisciante di Loro.

Alla fine sarà proprio quest’ultimo il sapore dominante, per quanto difficile o addirittura arduo sia stato talora il viaggio. E’ come aver navigato sulla superficie di un fiume, averne saggiato le anse, i letti, le rapide, il putridume e la freschezza, e poi il mare che è l’ultima parola del suo essere comunque fiume. Pure un bambino lo sa che è così. (7.4/10)

 

Peppe Consolmagno, Antonio Marangolo – Kalungumachine (Cajù Records, 2005)Copertina: Peppe Consolmagno, Antonio Marangolo – Kalungumachine (Cajù Records, 2005)

di ©2005 Stefano Solventi

 

Risale al ’94 questo incontro di due personalità inaspettatamente osmotiche, questi patrimoni d’esperienze e culture così lontani, così vicini, così inevitabili. L’un l’altro, l’uno nell’altro, tanto che l’abbraccio tra le voci (il sax, il baflaphone e l’harmonizer) di Marangolo e quelle di Consolmagno (live sample, conchiglie, cimbali, gong, caxixi…), o se preferite tra l’estetica fusion maculata di night club, cantautorato e colonne sonore del primo e quella sorta di panteismo intimista e gioioso del secondo, avviene con la leggera inesorabilità di un evento naturale.

La confluenza di due fiumi, un denso riverberare, il baflaphone che zufola minimi termini segreti, found sounds e pennellate ambientali: è il caso di Encontro das aguas, che in forza del suo realismo tra il magico e il naif spiega il senso di tutto il lavoro. Opera che sa altresì sbraitare panneggi free e calligrafismi intangibili (Kobaltus), agitare lo spirito di Robert Wyatt (nei vocalizzi traslucidi nel teatrino impressionista/animalesco di Manaus) ed angosce Eno/Bowie (tra gli ectoplasmi di harmonizer e cimbali di Lua). Che sa imbastire astrattismi dada tra i grovigli e la giocosità mambo di Klee. Che sa incedere sulla linea di tiro tra urbano e tribale, meditando jazz al confine tra civiltà e natura (come nella splendida ovvietà di Lembranças do nordest).

Che sa chiudere insomma l’abbraccio tra arcaismo e (post)modernità col fare agile ed esoterico della title track, per poi spegnersi in una ninna nanna impastata d’incanto e timore (il sogno adulto per pulsazione liquida, canto flautato e baflaphone di A criativitade è uma dança).

Disco meravigliosamente rannicchiato nel proprio sortilegio. (7.6/10)

 

Ishk Bashad - Live at Womad 2001 (Cajù Records, 2005)Copertina: Ishk Bashad Live at Womad 2001 (Cajù Records 2005)

di ©2005 Stefano Solventi

 

Ishk bashad è un saluto, un augurio di pace, un incontro di volontà. Quello che più o meno accadde una sera di Agosto del 2001, soltanto pochi giorni prima quindi che la frattura tra oriente ed occidente – frattura culturale, economica, religiosa, esistenziale – si facesse larga e profonda e nera, ferita di cui – ahinoi – siamo lontani oggi dallo scorgerne la guarigione. Ma quella sera, appunto, quella sera a Palermo, in occasione del Womad (creatura di Peter Gabriel, per quei due o tre che non lo sapessero), Ishk Bashad erano una band di quattro persone che incrociavano volontà, cultura, spiritualità e gioia, semplice gioia di esistere nell’incontro del loro suonare.

Suoni densi di passato inestricabile, eppure fragranti di presente. Il pianoforte romanticamente irrequieto di Giuseppe Grifeo, percorso di tentazioni jazz e progressive. L’oud vibratile e i melismi accorati della tunisina Mouna Amari. I peana lancinanti del violino di Enzo Rao. E, tra di essi, la ragnatela imbastita dalle percussioni di Peppe Consolmagno, un gioco vivo vibratile frastagliato, un muggire di vasi, un sonagliare di conchiglie, un fruscio e un tramestio che si nutre di quello che vibra nell’aria.

Dal buio incantato in cui sorge Che vi sia pace alle strategie sospese di Dervish, l’interplay fra i quattro definisce una tensione elastica tra libertà e mistero, unisce in un solo disegno effluvi latini e irrequietezze balcaniche, jazz e progressiva, il ponente e il levante di un intangibile medioevo (emblematica in tal senso Ya qalbi khalli elhal), salvo poi scompaginarsi come un mandala, disfare le densità atmosferiche (Gianub) come mulinelli d’ombra e sabbia (Zinkolah). Quella gioia e quella spiritualità di cui dicevamo insieme ammaliano e scorticano la memoria, tracciano disegni lunari, bisbigliano il fruscio del mondo.

Registrato su due tracce digitale, senza manipolazioni in studio, suona come un miracolo potente e fragile. Suona come certe cose che avvengono portandosi via il clichè, per non accadere mai più uguali. (7.2/10)

 


Music Magazine Sentire Ascoltare 2005

 

 

Giuseppe) PEPPE CONSOLMAGNO 
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